TUSCIA di Sergio Pedemonte

Per gli isolesi "Santuario" è sinonimo di Tuscia.

Siamo affezionati ad Alpe ma è una cappelletta, ci incute rispetto San Michele che è la parrocchiale figuriamoci se avessimo una basilica od una cattedrale. Non pensiamo di sbagliare quindi affermando che Tuscia è il luogo di culto più vicino sentimentalmente agli isolesi. 

Tra l'altro è una zona paesaggisticamente gradevole, stranamente bassa rispetto al profilo della valle od alla tipica posizione di molti santuari fondati generalmente sulle vette dei monti liguri: il letto del Vobbia poi la lambisce come una sciarpa rilucente e gli stessi colori dell'edificio e della cupola del campanile sembrano più consoni ad un luogo di serenità che non di penitenza. 

Bisogna aver assaggiato le leccornie di un 8 settembre precedente agli anni settanta per capire la giusta atmosfera di quella festa; intanto si raggiungeva Tuscia a piedi: alla mattina per la Messa (più donne e bambini che uomini) e quindi al pomeriggio per il Vespro. A quel punto c'era il pienone, un po’ di odore d'incenso anche sul piazzale e qualche viso arrossato dalla fatica di mangiare antipasti, brodino con fegatini, ravioli (obbligatori), pollami e conigli, verdure, fugassa duse, e tutto quello che le cuoche riuscivano a scovare nel loro curriculum. 

Tra i massari i più intraprendenti scendevano con bottiglia e bicchiere a brindare con amici e conoscenti mentre alcune donne dalla finestra chiamavano gruppi famigliari per l'assaggio dei dolci o per il caffé. 

Bambini ce n'erano a frotte: i figli degli organizzatori in una posizione di privilegio, con un ascendente che sarebbe scomparso il giorno dopo; poi c'erano i chierichetti che avevano conosciuto in quell'occasione menù inaspettati e vino dolce fino allo stordimento. Tutti gli altri alla ricerca di uno spazio dove provare il giocattolo appena acquistato alla bancarella: spade di gomma alla Tre Moschettieri, aereo con motore ad elastico incorporato, cerbottana simil bronzo con mirino variabile, fucile a tappi, pallone in vero cuoio con camera d'aria in gomma per il più fortunato e meritevole. 

Premi di consolazione, dopo un'ora di Vespro in silenzio e con finto raccoglimento, erano le reste di canestrelli durissimi, la liquirizia a strisce, le mente, il reganissu ed i famosi, unici, mai sufficientemente lodati, degni di uno spot fantastico: i marunsini!

Erano complemento e sregolatezza di una giornata che volgeva alla fine; complemento perché senza di loro non esisteva Tuscia neanche se ci fosse stato Gualtiero Marchesi a cucinare; sregolatezza perché dopo la Mamma ce li facevamo comprare dal Pa’, poi dalle Lalle e dai Barbi e avevamo già in corpo biscotti, torte e caramelle.

In stagioni più avanzate della vita ai marunsini sostituivamo la luna che si vedeva durante il ballo a Noceto. Che momenti! I 4 Jolly o i Meppiggs sudavano su chitarre e fisarmoniche, noi arrivavamo (per la terza volta a piedi nella giornata) con il maglioncino sulle spalle, calzoni in terital a zampe di elefante e aspettavamo che apparisse Lei: in genere aveva una sola treccia, niente trucco, gonna a pieghe, bicicletta della zia. A quel punto pre-fantozzianamente ci aggrediva la tachicardia con saliva azzerata e sguardo brillante tipo Mino Reitano.

Se poi suonavano "Samba pa ti" o "Whiter shade of pale" si rischiava veramente l'infarto nel tratto di cemento che ci separava dal chiederle: «Sc-sc-u-usa, b-balli?». Ahi luna! Niente ombretto, abbronzatura nature, profumo preso dal tabacchino, peli sulle gambe. Non sto descrivendo Mazinga: erano proprio così! 

E ci facevano impazzire lo stesso.

Finivamo la serata con una sigaretta (Nazionali semplici, 180 lire al pacchetto) e la sensazione che l'estate fosse agli sgoccioli. Ancora un bagno, forse due, al lago di Savio; poi un temporale che non provocava alluvioni, decretava però l'uscita dalla scena degli amici genovesi e Vobbietta o Isola o Prodonno ritornavano ad essere un insieme di case e strade. 

Fino alla festa in Tuscia erano state il nostro paradiso.

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