ISOLA DEL CANTONE VISTA DA ALFREDO DEDDO RIVARA di Sergio Pedemonte

Per tramandare l’opera dell’uomo spesso ci si rivolge ai grandi monumenti, alle splendide sculture, alle gesta memorabili: noi, e come noi tanti altri, preferiamo rivolgerci alle cose di tutti i giorni, a quella che è esperienza di tutti, all’essenza del vivere semplicemente in un paese lavorando con onestà e contribuendo senza schiamazzi od egocentrismo al suo sviluppo. 

Abbiamo così pubblicato le Tradizioni Religiose, abbiamo esplorato il mare senza fine dei dolori causati dalle guerre con le testimonianze raccolte in Verso casa; adesso Vi proponiamo qualcosa di diverso che potremmo paragonare ad una sorta di memoria visiva, come le leggende e i racconti lo erano per i nostri vecchi intorno alla stufa.

Alfredo Rivara, Deddo per tutta Isola, con le sue foto ci tramanda un paese che non saremmo capaci di raccontare con le sole parole; una comunità a cui un inizio di benessere, siamo tra il ’50 e il ’60, ha impedito di imprimersi nitido nei ricordi della gente, così come lo rimanevano invece le carestie, le malattie, gli avvenimenti esagerati di forse un secolo fa. L’Isola del Cantone di quegli anni non viene ancora descritta come un patrimonio comune a tutti: essa è tuttora ricordo del singolo ed al singolo appartiene potendola trasformare in aneddoto, curiosità o episodio individuale.

Deddo invece, con le sue immagini, riesce in un sol colpo a smussare ed amalgamare una ridda di sentimenti privati dandogli una dignità quasi storica. Ecco che le processioni, le partite di pallone, le prime gite in corriera non sono più l’attimo di vita di cinque o dieci isolesi, ma sono le processioni, le partite, le gite di una comunità intera.

E’ facile quindi osservare in esse non soltanto il viso del compagno di banco o di leva, ma intuire anche il loro stato d’animo e ricordare improvvisamente che la scuola era un grosso sacrificio o che dalla fabbrica e dalla campagna non si ricavava granché.

Il ritratto, nei tempi che furono, era appannaggio di pochi: addirittura mancava a molti l’immagine di se stessi o, se l’avevano, non era riproducibile facilmente. La foto rivoluzionò tutto questo: anche le classi meno abbienti poterono impressionare le proprie sembianze e spedirle a chi era lontano. L’infernale macchina lavorò a trasmettere dati per molti anni: il figlio soldato, il nipotino ai parenti oltremare e così via. Non erano ancora i tempi per poter fissare i ricordi, gli attimi fuggenti di un tratto di vita. Solo in seguito iniziò la ripresa di momenti celebrativi collettivi: la festa campestre, la gita in montagna, il matrimonio ...

Oggi la foto è costume, essa è il nostro binario parallelo; c’è tutto quello che facciamo, dal lavoro ai momenti intimi, privati, alle cose futili a quello che pensiamo o vogliamo vedere in un gioco di luci. Essa è reportage, arte spicciola, ausilio alla memoria, strumento di lavoro, introspezione psicologica, tentativo di manipolare la realtà e così via.

Quando Deddo iniziò a fotografare Isola e gli isolesi, si era in mezzo al guado di questa tecnica ormai alla portata di tutti ma che non era ancora una procedura semplice. Occorreva in altre parole un mediatore: il fotografo.

Volevamo il ritratto ed era il fotografo che ci imponeva la posa; volevamo il ricordo ed era lui che sceglieva le inquadrature. Pochi possedevano una macchina fotografica e in ogni modo si decidevano a scattare un’immagine solo quando le condizioni erano ottimali perché c’era sempre il dubbio che l’istantanea fallisse.

Anche il nostro Autore aveva dei limiti da non oltrepassare ma, rispetto ai più, possedeva almeno quanto di meglio si poteva avere come professionista di provincia e, soprattutto, la passione.

A quel punto, immaginiamo, occorreva interessare i soggetti, costringerli in qualche modo, inconsciamente, a diventare potenziali protagonisti di quel palcoscenico che sono gli avvenimenti in un paese. Pensate un po’ se Deddo si fosse accorto che ai suoi compaesani non piacevano le foto di processioni, di incidenti stradali, di nevicate notturne, di balli in maschera. Avrebbe degnamente ricoperto il ruolo di artista da foto-tessera e sarebbe finita lì. Complici i tempi e la curiosità, egli arrivò a sistemare una bacheca sotto casa dove tutti, passeggiando, potevano ammirare gli ultimi scatti eseguiti, programmando chissà, di poter comparire presto su quello schermo.

Per non irritare o deludere il pubblico non si può solo fargli vedere quello che già vede: occorre proporgli fatti e persone in una luce diversa dal normale, filtrata o elaborata da un taglio che non tutti riescono a fornire.

Probabilmente Deddo non era cosciente di tutto questo processo tecnico - psicologico ma senz’altro intuì che solo una ricerca originale, fuori dagli schemi, poteva alimentare l’interesse per i suoi racconti ad immagini.

C’era in quel momento nell’aria una continua trasformazione di idee che si traduceva in nuove scenografie, anche a Isola: pensate solo alla nuova autostrada, al Municipio appena inaugurato, al campo sportivo, ai primi condomini. 

Associati a questi abbiamo però la scomparsa della Casa Littoria, dei baracconi di Savio, di alcune abitazioni e di campi e prati. Nel sociale c’era l’avvento della televisione come momento aggregante che poi, divenuta patrimonio di ogni famiglia, si trasformò in principale causa di isolamento; arrivarono le scuole medie obbligatorie e terminava l’esodo verso le Americhe iniziando quello per Genova. 

Non che nei decenni precedenti non ci fossero state profonde trasformazioni nella comunità isolese: basta pensare alle guerre del fascismo che dispersero i giovani in tutta Europa all’infuori che a casa loro. Solo che con il cosiddetto boom il cambiamento non venne imposto dalle necessità materiali o dall’alto: per la prima volta c’era una parte di scelta in quello che stava succedendo a livello personale. In fin dei conti non si moriva più di fame e la democrazia (o la cultura), anche se ancora giovane, permetteva quello che era impensabile qualche anno prima.

Cosa contraddistingue in fin dei conti la Nazione avanzata dalle altre? Le comunicazioni e l’energia. Se cominciate a far leggere giornali di ogni tipo, commentare le notizie, trasmettere opinioni, lasciar girare la gente a proprio piacere, vuol dire che tutto sommato ci sono strade, petrolio, libertà. Possiamo discutere su quanto di tutto questo serve per essere veramente moderni, ma la sostanza della crescita, dell’espansione economica italiana, era questa. E il nostro paesino ne risentiva come ne risentivano singolarmente gli isolesi.

Nelle foto di Deddo abbiamo tutto ciò: il calcio giocato con le scarpe che servivano anche per le feste, la Vespa e la Lambretta (Coppi e Bartali, Genoa e Doria), cappotti goffi e pesantissimi, le maschere di carnevale che non sono più esclusivamente Arlecchino e Pulcinella ma anche Indiani e Cow-boys, Cinesi e Fate. 

Guardate quelle processioni del Corpus Domini che non comunicano pathos spirituale ma un sobrio spettacolo di gente insieme, sì, uno spettacolo in cui gli attori hanno condiviso il copione senza dirselo. 

Guardate quei gruppi affollati a Livorno o sul Monte Buio che sembrano voler dimostrare all’obiettivo che la giornata non finisce lì perché non si può sorridere in quel modo se la vita è appesa al sottile filo di una scampagnata: ci vuole una speranza, un’illusione, un programma per il futuro.

Oggi non si fanno più fotografie di gruppo, non ci si mette più in posa; forse neanche nelle scuole, a primavera, si scende fin sulla piazza con la Maestra per un ritratto che sarà il termine di paragone per tanti anni. A cosa servirebbe? Oltre, nel futuro, c’è delusione, c’è a-coscienza di rapporti interpersonali, si guarderebbero le foto (a colori) solo per notare la pettinatura. Cosa fanno Piero o Maria tanto lo sappiamo benissimo, non c’è neanche bisogno di uscire perché il telefono è comodo e poi ognuno è preso nel vortice delle cose nuove e non si ha il tempo di somatizzare l’esperienza delle altre generazioni. Chissà cosa succederà con Internet in tutte le case?

Già oggi non esistono più generazioni. 

La creatività, il ricordo, il sogno, sono diventati un software che si può innestare su qualunque hardware biologico: che differenza c’è tra un diciottenne ed un trentenne nel secolo XXI? Sono entrambi insoddisfatti e cercano solo di prenotarsi un posto sull’autobus del welfare che passa sempre più raramente.

Nelle foto di Deddo la differenza esiste eccome: il crinale era netto, preciso. Finita la scuola elementare si lavorava, non c’era alternativa, i ragazzi di qui, gli altri di là: belin lo potevano dire solo i grandi, ai mocciosi e alle donne rimaneva il belan. 

Tutto questo si rifletteva in una mancanza di tempo libero che sfociava in domeniche intense, da vivere profondamente. Ecco allora che stare insieme non era un caso, ma una programmata necessità per vivere meglio la settimana dopo. Aggiungete la mancanza di auto, una tv ancora acerba e troverete il perché dei narcisi sul Monte Buio, o delle lunghe ore di pullman su per il Bracco per arrivare fino a Parma, fotografarsi sotto un campanile e ritornare a Isola nella notte fonda.

Ma un’altra cosa ci colpisce in quei gruppi: un’immancabile tonaca nera. Allora il Curato era organizzatore e assistente spirituale di una generazione: Don Ferretti, Don Cerro, Don Canepa, Don Serafino, Don Gianni hanno largamente influenzato i giovani che li frequentavano. Sul piazzale della Chiesa, in Canonica, nella Sede, si forgiavano gli animi in divertimenti ma anche in discussioni, verifiche, provocazioni, smarrimenti, ilarità. Non per niente Isola ricorda proprio quei preti che più hanno inciso fuori dall’altare vero e proprio, fuori dal rito religioso. Agli ex frequentatori della Parrocchia non vengono in mente le belle messe, gli splendidi vespri della propria gioventù, tutt’altro. Nei discorsi tornano in continuazione le sere passate a discutere magari di calcio, di lavoro, e, perché no, di una prima timida educazione sessuale. Hanno fatto breccia i Curati che non si sottraevano alle domande più spinose con qualche citazione dottrinale, ma che sapevano affrontare la realtà, le contraddizioni, le spinte autonome dei giovani isolesi.

Oggi i Curati sono in via d’estinzione e se ce ne fosse uno per Isola non avrebbe probabilmente l’ascendente di quelli di una volta. Quando si parla di villaggio globale, di massificazione, si uccidono anche i capo-branco. Chi potrebbe reggere alla concorrenza, qualunque essa sia, disponendo solo della propria buona volontà unita a una sede spoglia e fredda d’inverno? 

Deddo ambientò e ritrasse attori e scenari con la complicità di un mondo che manteneva ancora atteggiamenti antichi e aspirazioni moderne, cerimoniali consunti dalle esperienze e regole di comportamento in rapida evoluzione. Ma non per questo il suo merito è minore: ancora oggi egli conserva con grande meticolosità quel mondo di ricordi che riusciamo ad evocare debolmente solo se sentiamo Modugno, Claudio Villa o i Platters. 

Con le sue foto egli ha surrogato la macchina del tempo: per un isolese sono lo specchio in cui, veramente, appare quello che non c’è più.

P.S. Deddo è mancato pochi mesi fa: questo ricordo vuol essere un ringraziamento alla sua opera.